Carmelo Cutuli, Classe 1969, è un Comunicatore esperto in Relazioni Istituzionali, Esterne e Media. Studi in Economia Aziendale, iscritto all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti presso l’Ordine dei Giornalisti del Lazio, Cutuli siede attualmente nel board della Camera di Commercio Italo-Americana di Chicago e collabora con importanti Organizzazioni nord-americane. Attivo professionalmente nel campo dei media digitali, sin dagli albori di internet nel nostro Paese, è stato tra i primi professionisti italiani ad interessarsi a fenomeni quali il SEO, il Social Networking ed il Corporate Blogging. Dal 1998 al 2000 ha fatto conoscere a livello nazionale e internazionale il fenomeno dell’Etna Valley, la Silicon Valley italiana collegata con il Polo Tecnologico di Catania, attraverso la diffusione di un dossier giornalistico ed un’intensa campagna di relazione con i media sull’argomento.
Autore di ‘Media Relations. Il metodo americano’, per i tipi della The Watson Society Publishing House, un manuale operativo di relazioni media per i professionisti delle relazioni pubbliche, è curatore del primo blog italiano dedicato agli influencer, quelli veri, dal titolo Opinion Makers (www.opinionmakers.it).
D. Chi è un innovatore per te? Perché?
R. Definire con precisione il profilo ‘standard’ dell’innovatore mi sembra alquanto difficile, in quanto abbiamo diversi esempi che vanno dall’innovatore ‘per caso’ a chi è conosciuto soltanto in quanto ha valorizzato le innovazioni … degli altri. Ad ogni modo, se guardiamo i grandi innovatori della storia, ed anche quelli contemporanei, possiamo sicuramente definire una figura che abbia i tratti dell’anti-conformismo, del genio artistico e della competenza tecnica, oggi direi tecnologica. In ogni caso l’innovatore è sempre dotato di una visione propria che sente di dover realizzare per missione. Ricordo in proposito che Bill Gates un giorno ‘vide’ – prima di tutti gli altri – un personal computer su ogni scrivania e che Steve Jobs adottò il creed ‘Think different’ rivoluzionando l’eppur già geniale ‘Think’ di Thomas Watson Jr., fondatore di IBM.
D. Qual è l’innovazione che cambierà il mondo nei prossimi anni?
R. Sento dire tante cose in giro, me ne auguro una in particolare tra quelle che non sento spesso … Si parla indefinitamente del digitale indicando un po’ tutto quello oggi che passa per un personal computer o uno smart-phone, domani per un frigorifero o la cuccia del cane. Il grande protagonista della società dell’informazione insieme alle tecnologie microelettroniche e – dal punto di vista sociale – il collegato fenomeno dell’informatizzazione di massa, è il protocollo internet, quel TCP-IP che ancora oggi, dopo una quarantina di anni, è l’esperanto che permette alle apparecchiature informatiche di interagire tra di loro senza troppo curarsi dello spazio e del tempo a disposizione. E’ forse tempo che lo si metta in pensione a favore di un protocollo digitale di nuova generazione, più performante e più sicuro. Potrebbe anche essere quel RINA (Recursive Internet Architecture) di cui si parla ultimamente … in ogni caso, prima di pensare a qualcosa di veramente innovativo, facciamo in modo che non affondi le radici in ciò che conosciamo già bene oggi.
D. Qual è il ruolo di un leader in un’organizzazione?
R. Per motivi di formazione ed in base alla mia esperienza, che non è esclusivamente circoscritta all’Italia, il leader è colui che ti mostra la via da seguire, magari iniziandola a percorrere lui stesso per primo, e che sa gestire le energie di un gruppo indirizzandole verso gli obiettivi. Se dividiamo i profili ideali del leader e del manager, il manager è chi ha esperienza, tecnica e competenze per gestire le capacità e competenze del gruppo verso gli obiettivi, il leader è invece colui che, dotato naturalmente di carisma e di capacità d’influenza, deve soltanto mostrare il risultato, anche se ipotetico, affinché il team possa convincersi che sia raggiungibile. Va da sé che è possibile avere ottimi leader che siano dei pessimi manager, magari per mancanza di senso pragmatico, o ottimi manager che non siano buoni leader, anche se raggiungono obiettivi soddisfacenti. Se ne deduce che l’innovatore, che crea valore e che alza l’asticella, è quella figura in cui le caratteristiche di leadership (indirizzo delle energie) siano accompagnate da competenze di management (gestione operativa delle risorse e delle competenze del team).
D. Una persona che ha lasciato il segno nella tua vita?
R. Sono tante … tantissime … forse tutte quelle che ho conosciuto o anche solo incontrato. Ho un atteggiamento molto appassionato nei confronti della vita e dei rapporti sociali e cerco di prendere spunto dal comportamento degli altri, che sia positivo o negativo, per trarne un insegnamento personale. Nel corso della mia carriera professionale ho avuto la fortuna di conoscere molti maestri e di poterne seguire le orme. Se proprio devo identificare una persona, cui devo tanto, anche se non mi va di farne il nome, fu un grande vecchio di origine nord-americana, che anni fa mi fece conoscere l’associazionismo a stelle e strisce e mi introdusse in un mondo nuovo a me sconosciuto, anche se di associazionismo dai tempi dei boy-scout in avanti ne avevo già fatto tanto. Questo diede il via ad una serie di esperienze internazionali che ancor oggi reputo fondamentali nella mia formazione, personale come professionale, e soprattutto mi hanno permesso di mantenere un approccio di tipo internazionale alle cose, pur continuando a vivere in Italia.
D. La tua più grande paura/la tua più grande speranza?
R. La mia paura è collegata con una domanda precedente, ovvero al fatto che – per motivi che tutti ben conosciamo – l’Italia resti ancora oggi un posto dove alla classe dirigente non sono necessariamente richieste doti di leadership. Se analizziamo le classi dirigenti italiane, dal direttore della banca di quartiere fino ad arrivare al Ministro della Repubblica, vediamo che il modello è sempre lo stesso, non fare più di quanto fanno gli altri. In quest’ottica non meravigliamoci che poi manchi una classe politica che ci salvi da queste sabbie mobili. La speranza è ovviamente insita nel cambiamento generazionale, che si sprigionino nuove energie, a questo punto, è non soltanto auspicabile bensì necessario e determinante per il futuro di questo Paese.
D. Il tuo progetto di lavoro attuale e quello futuro.
R. Al momento vengo da un anno sabbatico che mi ha permesso di mettere a fuoco quanto fatto in anni di professione. Tenendo conto che ho iniziato venti anni fa, ovvero nell’anno zero di internet in Italia, ho ripercorso quanto fatto in maniera pionieristica e messo da parte materiale per almeno tre libri di cui il primo, dedicato alle Media Relations, è già disponibile in libreria. Sono stati anni meravigliosi, per il web in particolare i primi dieci, ancora ripenso al primo giorno in cui ebbi una linea internet, ovviamente con modem 9600 baud e chiamata interurbana, il netscape, l’IRC, i newsgroup e la casella e-mail dalla id inintellegibile tipo mi1900x@qualcosa. Il primo FTP, l’HTML, la prima pagina web, dedicata alla mia terra, la Sicilia, ed i primi contatti internazionali … Da quel giorno fu tutta ‘una prima’ fino al Novembre 2003, quando mi arrivò una e-mail dagli Stati Uniti che mi invitava on-board su LinkedIn, un social network … Barabàsi, sei gradi, Milgram, ne fui subito attratto e lì capii che il web si proponeva di uscire dal circolo ristretto dell’IT e che avrebbe avuto effetti, ancora oggi alcuni dei quali inesplorati, nella società.
Per tornare all’attualità, da qualche tempo mi sto sempre più appassionando al Nation Branding, una disciplina nuova per l’Italia, collegata alla Public Diplomacy. Con dei colleghi abbiamo fondato anche l’Associazione dei Nation Brander e presto ne codificheremo la relativa figura professionale.
D. La cosa che più ti fa emozionare e quella che ti fa più arrabbiare
R. Riesco ancora ad emozionarmi quando vedo qualcosa di nuovo, di inusuale e di affascinante che spunta all’orizzonte, mi arrabbio anche se non dovrei, in quanto relazionarmi con il potere è parte del mio lavoro, quando vedo persone che hanno la possibilità di cambiare in meglio la vita degli altri e che invece preferiscono, cinicamente, di non farlo per non mettere in gioco il proprio ‘acquisito’.
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