Tre sono i potenti: il Papa, il Re e chi non tiene niente. E’ un proverbio napoletano cui è molto affezionato Sergio Luciano. Perché gli ricorda quanto sia sbagliato perseguire illusioni di potere nella vita sociale e professionale quando ogni piccolo grammo di potere gestito costa chili di potere subìto da terzi e quanto sia più saggio e giusto, anche se faticoso, limitarsi a fare il proprio meglio, praticando tutta l’onestà che si riconosce in buona fede come tale, senza pretendere di salvare il mondo e cercando intanto di dare una mano al prossimo.
Luciano, 56 anni, fa il giornalista da quando era ragazzino. Nonostante la laurea in lettere “ha fatto danni”, dice, come giornalista economico in vari grandi quotidiani – dalla Stampa al Sole a Repubblica – ha diretto Panorama Economy, Telelombardia e fondato ilnuovo.it. Da sette anni fa il libero professionista e affianca alle collaborazioni giornalistiche – Panorama, Italia Oggi, Libero, l’AGI, il Sussidiario – qualche consulenza di comunicazione, e insegna al Master della Cattolica.
D. Chi è un innovatore per te? Perché?
R. Innanzitutto un innovatore non è un rottamatore. Siamo nani sulle spalle di giganti, se riusciamo ad elevarci è grazie a chi è venuto prima di noi, con tutti gli errori che può aver fatto. Innovatore è Sabin, non Attila. E’ chiaro che innovare significa anche rimpiazzare, sostituire, se necessario pensionare. Ma senza furie iconoclaste, tenendo il buono che c’è e cercando di costruire il meglio, non di cambiare per cambiare. L’innovatore-icona della Silicon Valley, Steve Jobs, ha avviato il turn-around della Apple migliorando, neanche di tanto, il vecchio lettore Mp3 e ribattezzandolo I-Pod. Perché solo migliorando oggettivamente l’ecosistema attorno a noi si innova sul serio.
D. Qual è l’innovazione che cambierà il mondo nei prossimi anni?
R. Sicuramente l’intelligenza artificiale. Sperando che non diventi idiozia artificiale. Basta e abbonda quella naturale. Dipenderà da come la useremo, ma noi over-anta ci capiamo in generale troppo poco per parlarne con cognizione di causa.
D. Qual è il ruolo di un leader in un’organizzazione?
R. La più alta forma di autorità è l’esempio, pare che dicesse Napoleone. Per questo stiamo male combinati: la classe dirigente dà pessimi esempi, se ci si guarda in giro. Invece il leader fa quel che dice, è coerente, dà il buon esempio. E ascolta: non soltanto la sua voce, ma anche quella degli altri. Non si crede Dio. Fa il direttore d’orchestra, non l’uomo solo al comando.
D. Una persona che ha lasciato il segno nella tua vita?
R. Tante. Per parlare del lavoro, voglio ricordare Bruno Stocchetti, caporedattore napoletano storico, un gran signore di questa professione, che incontrai al Diario di Napoli, a Pizzofalcone, a vent’anni. Mi fece capire che è più difficile scrivere bene la storia di uno scippo a una vecchietta, e farsi leggere, che raccontare una sparatoria con quattro morti. Mi insegnò l’umiltà – lezione che ho troppe volte cercato di dimenticare ma ancora ripeto a mente ogni giorno – e però mi diede anche un sacco di coraggio e di fiducia.
D. La tua più grande paura/la tua più grande speranza?
R. La paura è sempre quella di non farcela a raggiungere il prossimo obiettivo, di non stare bene, di invecchiare male. La speranza mi deriva dall’ottimismo di fondo, dall’ironia – mai troppa, nella vita – e soprattutto dal fatto che credo in Dio e penso che alla fine, prima o poi, capiremo il perché di tutto questo grande, anche se bellissimo, casino che è la vita.
D. Il tuo progetto di lavoro attuale e quello futuro.
R. Oggi bisogna innanzitutto cavalcare il cambiamento senza farsene disarcionare: cambia il giornalismo, cambia la comunicazione, cambia la società e l’economia. Oggi quindi mi sforzo di tenere insieme le mie – spero – ancora funzionali competenze con un mercato che le chiede ancora ma vuole farsele offrire in modi nuovi. Domani cercherò di far riemergere sempre di più, pur in questo turbinio, i fondamentali del nostro mestiere di giornalisti, la famosa ricerca della verità, che non è mai acquisita, mai stabile, ma precostituita, ma non può per questo essere ridotta a post-verità. Tra una notizia vera, una vicina al vero e una bufala ne corre. E ho un progetto specifico, ma ancora acerbo, per provarci.
D. La cosa che più ti fa emozionare e quella che ti fa più arrabbiare.
R. Mi fa arrabbiare l’arroganza. La maleducazione violenta e prevaricatrice del “si fa come dico io”, che abbonda in chi pretende di aver capito tutto, per meglio farsi i propri interessi. Mi emoziona invece accorgermi, più spesso di quanto mi aspetterei, che siamo in tanti, a non pretendere di aver capito tutto e di farsi solo i propri interessi ma a voler lavorare insieme, rispettati e rispettosi della dignità di ciascuno. Quando ci si accorge dell’intesa profonda sui valori, sul modo di pensare la vita con qualcun altro, è come quando Mowgli dice agli animali della giungla: “Siamo dello stesso sangue, io e te!” E ritrova la strada della salvezza.
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